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Un centro di gravità tra connesisoni e radici

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Roma, il giornale di Napoli 

Con Il male che non c’è, Giulia Caminito torna a raccontare una generazione sospesa

La scrittura di Giulia Caminito, ricca di dettagli ma mai ridondante, è tagliente e diretta. Una lingua precisa, adatta a raccontare la condizione di Loris, di Jo e della loro generazione: una generazione che ha appiattito le differenze, accorciato le distanze e che si rivolge a tutti nello stesso modo, con lo stesso tono. Una miscela di precarietà e solitudine. Caminito introietta questa postura e la restituisce al lettore, che avverte pagina dopo pagina il bisogno di un centro di gravità. Perché è proprio la solitudine, insieme alla precarietà, a rendere tutti dipendenti da qualcosa. Oggi, quasi sempre, questo qualcosa è internet, con le sue infinite declinazioni. Ognuno con la sua solitudine, ognuno con il suo cellulare.

Eppure, c’è stato un tempo senza internet, senza cellulari, senza connessioni. Fatto di esperienze concrete, di contatti fisici. Di terra, di ciliegie finte sugli alberi, di colombi. Il tempo di nonno Tempesta, il giramondo innamorato del suo orto. Centro di gravità permanente, l’archè di tutte le cose, radicato nella terra che calpesta, il punto in cui tutto converge, il luogo dove si compie il ciclo completo della vita. «L’orto era una mezzaluna, a sinistra le mele cotogne, a destra le piantine di fragola, al centro gli alberi da frutto, insalate, melanzane, zucchine, zucche e pomodori […] quel semicerchio gli bastava, contava più del giardino, contava più della casa, permetteva l’esperienza della nascita e della morte e di quello che arrivava dopo, quando tutto si faceva marcio e tornava terreno».

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La verità in forma di romanzo

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Romail giornale di Napoli

Il commissario Malandra di Franco Avallone scava nell’anima di una comunità, tra rito e memoria collettiva

Uno degli elementi che aiuta a distinguere la letteratura dal resto che si scrive (anche bene), oltre naturalmente alla musicalità delle parole messe una di fianco all’altra e indipendentemente da ciò che si voglia intendere per musicalità, è la verità. La verità che quelle parole esprimono.

E ogni libro che esprime verità è, in qualche misura, autobiografico. La finzione è nella costruzione della narrazione e della concatenazione dei fatti, non è, non può essere, nella voce. La voce di Franco Avallone, ne Le vergini del commissario Malandra, coincide e si sovrappone alla narrazione e in tal modo ne determina la cifra stilistica.

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La scacchiera del tempo

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Romail giornale di Napoli

Dentro I figli dell’istante di Edoardo Albinati

I figli dell’istante è un romanzo che cattura il tempo, lo inchioda alla pagina e lo interroga. Edoardo Albinati, da fuoriclasse della scrittura qual è, compone un’opera monumentale e vitale, capace di restituire al lettore non solo storie, ma mondi interi.

A guidare la lettura è Elegia dello Stivale, testo d’apertura che traccia la mappa narrativa: uno spazio netto, senza infingimenti, in cui il racconto si muove tra giudizi, azioni, affermazioni. Termina  a pagina 25. Da questo momento il lettore può godersi la lettura con maggiore consapevolezza.

Subito dopo – a pagina 26 – entrano in scena protagonisti e comprimari, descritti con la minuzia e la precisione tipiche di Albinati. Come tessere di un puzzle infinito le figure si dispongono su una scacchiera a comporre un quadro d’insieme.

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Ricordare con tenerezza

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Romail giornale di Napoli

Mario Desiati, racconta la fatica di appartenere: Taranto, la famiglia, e una ninna nanna yiddish
Il primo capitolo di Malbianco, l’ultimo romanzo di Mario Desiati, s’intitola Il ramo spezzato proprio come il libro di Karen Green, moglie di David Foster Wallace, che racconta gli anni di vita trascorsi con lo scrittore. «È dura ricordare le cose con tenerezza» scrive Karen Green all’inizio della sua narrazione, leggendo Malbianco non si può che darle ragione.

Il titolo stesso, Malbianco, evoca un ossimoro visivo e morale: qualcosa di puro e insieme malato, una luce contaminata. È un titolo che si fa chiave di lettura, incarnando la tensione profonda del romanzo tra chiarezza e dolore, radici e sradicamento, identità e smarrimento. E, con esso, si definisce la cifra stilistica di Desiati: qui più che altrove decifrabile, precisa, netta. Poetica, intensa, viscerale.

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La morte di Ivan Il’ic: la vita secondo Tolstoj

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic

Per parlare a lungo di una persona, della sua vita amorosa, lavorativa, politica, bisogna che muoia. Letteralmente. È un espediente eccellente: è più facile stare dalla parte di chi non può difendersi. Un morto, appunto, non può farlo. Per questo è la vittima perfetta. Lev Tolstoj lo sa bene, e confeziona un capolavoro con La morte di Ivan Il’ic. Un morto perfetto.

«Il morto giaceva, come sempre giacciono i morti, colle rigide membra pesantemente abbandonate sulla lettiera della bara, colla testa ormai in eterno reclinata sul cuscino, e mostrava, come sempre mostrano i morti, la fronte gialla e cerea, calva sulle tempie infossate, e un naso prominente che quasi premeva sul labbro superiore».

Eppure, in quella fissità, Tolstoj fa vivere un intero mondo: la Russia della seconda metà dell’Ottocento. Il lavoro, la casa, le ingerenze politiche, la noia in famiglia e sul lavoro. I decori, gli arredi. In poche parole: la vita. Per raccontarci tutto questo, Tolstoj s’inventa un morto.

È o non è un fuoriclasse?

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Tra vento di scirocco e gelsomini la vera storia del capitano Sebastiano Moncada

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Romail giornale di Napoli
Qui è pubblicato in una versione più lunga che include alcune citazioni

Nel 1963, l’anno in cui principia il romanzo di Giovanna Casadio, Arrivammo a destinazione, sono stati 183.000 gli italiani del Mezzogiorno emigrati al Nord. E dunque, anche se l’autrice scrive che questo romanzo «è una storia di femmine», «una storia di mari e di marinai» e «soprattutto la storia di Nevio Boni», pur rispettando ciò che ella scrive, penso sia soprattutto una storia di emigrazione e, per estensione, una storia tra le tante storie, della grande migrazione degli italiani del Sud verso l’Italia del Nord e il resto del mondo. Una storia che merita di essere raccontata e che continuerà a vivere nel tempo, rinnovandosi di generazione in generazione.

Una storia fatta di storie, come quella di Sebastiano, raccontata o cuntata come scrive Giovanna Casadio, «c’è un attimo, subito dopo la morte, in cui ogni desiderio è esaudito. È l’istante in cui chi muore può chiedere scusa a chi ha offeso, tenersi accanto l’amore più grande, sedersi sul molo ad abbracciare il mare».

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Sofia Assante, d’amore e di classe

La mia ultima storia per te, ha vinto il Premio Viareggio Rèpaci Opera prima

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Romail giornale di Napoli
Qui è pubblicato in una versione più lunga che include alcune citazioni

Fin dalle prime pagine e dai due incipit s’intuisce che l’esordio letterario di Sofia Assante è anche un film. Un film d’amore e sull’amore, un libro che s’interroga sulla relazione di amorosi sensi che tutti cerchiamo e a cui tutti aneliamo.

«Ci fumiamo una sigaretta al telefono?» e qualche rigo sotto «Affacciati alla finestra. Dimmi com’è New York», cosa sono se non il desiderio di condividere, nello stesso istante e insieme, fisicità, desiderio e bellezza?

Andrea ed Elettra si amavano e si amano ancora, ce lo dice il loro primo dialogo dopo dieci anni di silenzio. Al telefono, a tanti chilometri di distanza. Ce lo dicono le parole di Andrea, voce narrante, quando spera che Elettra attacchi il telefono, «Ho trovato il modo di vivere senza di te, Elettra, e non me lo rovinerai. Per amor del cielo, attacca. Ma poi ha parlato. Io ero attaccato alla finestra, la cover band dei Led Zeppelin se n’era andata e il sole era sceso sotto la linea dell’orizzonte ma illuminava ancora il cielo con una striscia arancione, fosforescente e bellissima». Sono le parole che danno forma ai pensieri di un uomo innamorato.

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Diana Karenne, la protagonista dell’ultimo libro di Melania Mazzucco paradigma dell’emancipazione femminile

Questo articolo è pubblicato sul quotidiano Roma, il giornale di Napoli
* Qui è pubblicato in una versione più lunga che include alcune citazioni

In una ispirata, potente e volutamente politica, prolusione alla tredicesima edizione del Salerno Letteratura festival, Melania Mazzucco spiega le ragioni della letteratura, la sua forza di cambiamento, la capacità di accendere riflettori sulla realtà e fornire gli strumenti per comprenderla e, quindi, provare a cambiarla. Parla del potere che non ha colore, dei libri «dati alle fiamme dai nazisti nel rogo di Berlino il 10 maggio 1933», di quello stesso potere senza colore che vince quando le persone smettono di leggere e d’informarsi e che « rassegnarsi ad allevare una generazione senza libri significa cedere l’unico vero potere della letteraturala libertà».

Sono alcune delle questioni alla radice della scrittura di Melania Mazzucco e in particolare del suo ultimo libro, Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne. Un viaggio che prende il via nel 1914 a Roma e si concluse nel 1968 a Losanna. Attraverso la sua lotta per l’affermazione personale, come donna e come artista, la protagonista incarna il desiderio di indipendenza che accomuna molti, e in modo particolare le donne. Diana Karenne, uno dei tanti nomi che la protagonista utilizzerà, è tante cose insieme, «straniera, misteriosa, femme fatale, zingara, cantante, imprenditrice cinematografica, spia, suora strappata al convento, santa, contessa, regina, zarina», prima donna e regista del cinema muto italiano, tra le prime registe cinematografiche del mondo.

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La pace non si arma: da Spinoza a Caracciolo, il coraggio di disobbedire

Questo articolo è pubblicato su pagina21

Da Spinoza a Gandhi, fino a Lucio Caracciolo, contro l’antico e attuale paradigma del preparare la guerra

Giorgia Meloni, in Parlamento, cita il motto latino Si vis pacem, para bellum e dichiara di pensarla come gli antichi romani. L’espressione, attribuita al funzionario imperiale Vegezio, compare nel III libro del suo Epitoma rei militaris, redatto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo dopo Cristo. La formulazione esatta è: Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum.

Dunque: chi desidera la pace, prepari la guerra.

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Non vince sempre il più forte, vince chi sa sognare

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo è pubblicato su Roma, il giornale di Napoli

La finale dei playoff di serie C tra Pescara e Ternana ha regalato agli oltre ventimila tifosi presenti allo stadio uno spettacolo che poche altre discipline sportive sanno esprimere. Nel calcio non sempre vince il più forte, ma a volte e come per magia (per citare l’artefice della promozione in serie B, l’allenatore Silvio Baldini), vince chi ha più cose da dire e da dare per sé stesso e per gli altri. Ed è esattamente quello che è successo tra Pescara e Ternana.

Nel doppio confronto la Ternana ha concesso al Pescara un solo tiro in porta, quello del napoletanissimo Gaetano Letizia che ha sancito la vittoria dei biancazzurri allo stadio Liberati di Terni, e ha creato almeno sette, limpide, azioni da gol che solo la bravura di Alessandro Plizzari, il portiere dei biancazzurri, ha impedito che potessero essere altrettanti gol. Lo ha riconosciuto, con la schiettezza che lo contraddistingue, lo stesso Baldini a fine partita.

Ma tutto questo non è bastato ai rossoverdi per vincere. Hanno vinto i biancazzurri del Pescara, ha vinto il suo allenatore Silvio Baldini, ha vinto il suo presidente Daniele Sebastiani, ha vinto, ieri sera, soprattutto il portiere dei padroni di casa, Alessandro Plizzari.

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